Dicono che non è possibile tornare indietro. Io sono stata una expatriate per quattordici anni e credo lo resterò per sempre. Sono tornata in Italia dopo quattordici anni, di cui due passati in Germania e dodici negli Stati Uniti, ma non sono la stessa persona che ero prima di partire. Non mi riferisco semplicemente ai cambiamenti che avvengono per tutti, col passare degli anni, ma ad un modo di guardare al mondo ed agli altri, che si è lentamente modificato, a volte mio malgrado, fino a trasformare profondamente il mio modo di essere, ed infine la mia identità. Tornata “a casa” ho scoperto di non essere capace di riallinearmi alla vita, la cultura, i costumi, le mille convenzioni implicite che regolano le nostre vite. Tutto quanto mi sembrava una volta naturale e scontato, mi capita adesso di considerarlo con un certo distacco. Non mi sento più tanto parte integrante di un sistema, quanto un’osservatrice, tutto sommato abbastanza comoda in esso, ma sempre in fondo un po’ aliena. Questa io credo è la natura dell’expatriate, che una volta acquisita, difficilmente ci lascia. Mi è capitato di interrogarmi se questo fosse un bene o un male, ma è una domanda cui è difficile rispondere. Se da una parte sento di aver acquisito una maggiore elasticità mentale ed apertura verso modi diversi di vivere, so di averla pagata con la rinuncia ad una parte della mia identità culturale. Io sono stata una expatriate riluttante: non avevo alcun desiderio di lasciare l’Italia, ho dovuto farlo per motivi familiari. Eppure, ripensando adesso al modo in cui l’esperienza che ho fatto mi ha cambiata, non ci rinuncerei per nulla al mondo.
Seppur il mio bilancio è tutto sommato positivo, conosco molto bene lo sforzo che la condizione di expat comporta. Soprattutto nei primi anni, e soprattutto se ci si trova in una cultura in cui non ci si sente a proprio agio, la sensazione di perdita di potere personale è difficile da sfuggire. L’immersione in una cultura diversa da quella d’origine comporta la necessità di adattarsi in fretta ad una serie di cambiamenti, che spaziano da piccole questioni pratiche della vita quotidiana ad aspetti più complessi, come il modo di relazionarsi agli altri.
Una non perfetta padronanza della lingua, quando presente, gioca un ruolo fondamentale rispetto alla sensazione di sentirsi meno capaci, più insicuri, e di essere percepiti come tali dagli altri. Questa percezione alterata delle capacità o status sociale dello “straniero” viene spesso ritrasmessa all’expat, andando a rafforzarne il senso di insicurezza. Si crea così un circolo vizioso che è difficile rompere. A questo si possono aggiungere altri vissuti negativi, quali lo spaesamento, il senso di isolamento, le aspettative deluse, la nostalgia per famiglia e amici.
I cambiamenti richiesti all’expat coinvolgono spesso parti profonde del se’. Non è quindi inusuale che le difficoltà provocate dalla nuova condizione di vita vadano a esacerbare ansie o insicurezze profonde, che venivano tenuto sotto controllo con maggiore facilità in una situazione meno stressante. Un sostegno psicologico, anche di breve periodo, può rivelarsi un aiuto fondamentale per gli expat, per reinquadrare la propria esperienza, spezzare quel circolo vizioso di cui si parlava, rifocalizzarsi sugli obiettivi che avevano determinato lo spostamento in primo luogo.